pub-6178281982904860 Un mondo di mondi: luglio 2015

venerdì 31 luglio 2015

L'odissea di Virna, una casa da adeguare per l'undicenne affetta da cirrosi epatica

Lesioni all'esterno dell'abitazione 
Il suo nome ricorda quello di un’attrice italiana, un tocco di regalità nella sua vita giovane e semplice quanto complicata.  

Virna*  ha solo 11 anni, vive con la sua famiglia a Melito Porto Salvo (Rc) e fin dai suoi primi mesi  è seguita all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, a causa della cirrosi epatica di cui è affetta dalla nascita.

Una vita segnata dalle condizioni di povertà della sua famiglia che tutt’oggi vive con meno di 300 euro al mese, riuscendo tuttavia a garantirle la frequenza a scuola e le regolari trasferte in ospedale. 

Nel 2012, dopo innumerevoli richieste,  il comune di Melito, assegnò un alloggio popolare alla sua famiglia, consentendo la fuga  dal campo di via del Fortino, in cui Virna e sua sorella sono nate.  Per i genitori sembrò finalmente arrivata  la possibilità di garantire  condizioni abitative più adeguate al precario stato di salute della figlia minore.

Ma da alcuni mesi quella casa tanto desiderata si sta rivelando una trappola per Virna e i suoi familiari. «L’alloggio ha delle infiltrazioni d’acqua, c’è umidità e muffa in tutte le stanze – racconta Massimo,  il papà di Virna– questa situazione peggiora lo stato di salute di mia figlia». 

Tracce di umidità e muffa
all'interno dell'alloggio popolare 
A Virna, oltre alla cirrosi epatica, sono stati riscontrati ipotiroidismo e infezioni respiratorie ricorrenti con crisi di asma bronchiale, quest’ultime, insieme ad altre patologie, sono state riscontrate anche a Massimo. 

Ad oggi diverse sono state le richieste al neo sindaco di Melito, Giuseppe Meduri, eletto lo scorso giugno dopo il commissariamento per infiltrazioni mafiose. Si chiede che il Comune possa provvedere, come previsto dalla legge, ad un intervento di manutenzione straordinaria  per l’alloggio assegnato alla famiglia di Virna.

«Finora non abbiamo ottenuto alcuna risposta», conclude Massimo.
 Ma la speranza di un cambiamento resiste.

* Nome di fantasia a tutela della privacy



domenica 5 luglio 2015

I Rom la razza ultima, intervista a Maurizio Alfano

Una prigionia scandita dai ritmi di un’identità presunta, cucita addosso a uomini e donne con origini e storie differenti ma accomunati dall'appartenenza etnica. Una gabbia di stereotipi che condanna le persone a percorsi di vita già decisi e definiti dai preconcetti altrui, in nome dello stigma di zingaro.
Sotto accusa nel libro “I Rom, la razza ultima - Prigionieri di identità presunte” di Maurizio Alfano, le azioni messe in campo negli anni dalle Istituzioni pubbliche ma anche dal privato sociale. Azioni che, anziché impedire, hanno alimentano le pessime condizioni di vita in cui ancora versano in Italia una parte degli appena 170-180 mila persone di etnia rom.
Dall’esperienza tra i cittadini europei di nazionalità rumena di etnia rom a Cosenza e nel comune di Bisignano, nascono la ricerca e le riflessioni dell’autore, intervistato venerdì scorso, in occasione della presentazione del libro a Reggio Calabria, presso la sede dell’associazione Pagliacci ClanDestini.
Un momento dell'incontro a Reggio Calabria
G.Marino (Opera nomadi Reggio Calabria), M. Alfano, G. Serranò, Santo Nocito (Pagliacci clandestini), Eugenio Naccarato (Amnesty International)
Nel suo libro analizza gli effetti che le identità presunte attribuite all’etnia rom generano nelle politiche pubbliche ma anche nell’azione di associazioni nate con l’intento di facilitare l’inclusione dei rom. I campi sono un esempio significativo dell’immagine stereotipata attribuita a queste popolazioni. Proprio a Cosenza nei giorni scorsi si è assistito al trasferimento forzato di centinaia di cittadini europei provenienti dalla Romania presso una tendopoli, voluta dall’amministrazione guidata dal sindaco Occhiuto, in alternativa al campo di Vaglio Lise.
Quali riflessioni le suscita questa scelta politica?
E’ un’azione sicuramente discriminatoria che si colloca all’interno di una forma di razzismo istituzionale. E’ evidente anche nella misura in cui viene scelta questa tempistica. In concreto accade che oggi il campo è stato completamente demolito dalle ruspe e non esiste più e con un atto notificato ad ogni famiglia si è provveduto al trasferimento forzato presso una tendopoli, in un’area a circa 700 metri distante dal vecchio campo. Quindi non è tanto il luogo in sé che crea un nuovo stato di segregazione, condizione già esistente con il campo sorto spontaneamente. L’atto è discriminatorio se si considera dove oggi è ubicata la tendopoli e cioè vicino ad un cavalcavia, esposto continuamente al traffico. Queste persone in pratica sono state esposte pubblicamente al rischio già sperimentato di subire durante la notte il lancio di oggetti dal cavalcavia, la gente suona il clacson, chiama gli abitanti della tendopoli con toni offensivi gridando “zingari”. Sono stati esposti inoltre al complesso di abitazioni di via Popilia, notoriamente contrario alla presenza di rom. Voglio ricordare che un consigliere comunale eletto da quelle palazzine ha minacciato di darsi fuoco, un consigliere comunale di minoranza, di sinistra appartenente a Sel (Giovanni Cipparrone nda) che ha minacciato di darsi fuoco. Attenzione, non perché delle persone sono collocate forzatamente in delle tende ma perché le tende e i rom sono stati avvicinati.
Queste persone inoltre vengono trasferite nelle tende nei mesi di maggiore caldo. Si arriverà ad uno sfinimento delle famiglie che lasceranno le tende loro malgrado per trovarsi un’altra allocazione.
C’è inoltre una situazione di promiscuità che genera problemi all’interno delle tende. In una tenda ci sono infatti fino a tre nuclei familiari diversi. E’ ovvio che, se le persone vengono costrette in una situazione di cattività, può fatalmente emergere il peggio, per il caldo, l’asfissia, la stanchezza, per aver dovuto lasciare tutto, perché queste persone hanno potuto portarsi dietro solo una coperta ed una busta con degli oggetti personali, del resto non è rimasto nulla.
Una situazione quindi addirittura peggiorativa rispetto al campo
Sicuramente. Ma c’è anche un altro aspetto. Da adesso ufficialmente queste persone per la prima volta vengono censite e inserite in un campo anche se in maniera temporanea.
Cosa si nasconde dietro questa operazione? Da questo momento si possono contare 90 giorni, tre mesi, dopodiché le forze dell’ordine possono chiedere conto a queste persone della loro presenza, chiedere informazione sul come vivono, se hanno un contratto di lavoro, una licenza da venditore ambulante. Dal novantesimo giorno sono espellibili.
Non dobbiamo dimenticare che, in questo caso, stiamo parlando di cittadini europei che arrivano dalla Romania dove quasi sempre hanno vissuto dentro delle vere e proprie case, hanno spesso anche titoli di studio elevati.
E ora si ritrovano in un campo…
Esattamente. Il paradosso è che i rom rumeni che vivono a Cosenza sanno cosa è una casa, sono qui come migranti economici, a volte per poter ritornare in Romania e potersi costruire una casa. Loro non conoscevano prima di venire in Italia l’esperienza dei campi. Arrivano in Italia e si ritrovano a viverci perché nessuno fitta loro una casa e poi per loro riusciamo ad inventarci istituzionalmente anche una tendopoli.
Quale poteva essere una soluzione alternativa?
Anziché creare una tendopoli, con le risorse pubbliche impiegate, si sarebbe potuto  ad esempio dare una dote finanziaria ai nuclei familiari, dare un primo bonus di ingresso per i nuclei familiari e sostenere l’affitto di case, pagando cauzione e un paio di mesi. Il Comune poteva farsi da garante e intermediare per trovare le case in affitto necessarie, nel comune di Cosenza ma anche in quelli vicini. Sarebbe stata una soluzione più semplice e avrebbe avviato processi di relazione tra persone e anche la possibilità di richiedere la residenza. Stiamo parlando di cittadini comunitari, cittadini rumeni che vivono da 8-10 anni a Cosenza senza documenti e senza tessera sanitaria, contrariamente a tutte le leggi.
Si sarebbe potuto anche ascoltare le persone e trovare soluzioni con loro…
Semplicemente si. Bisogna pensare che un’operazione del genere come quello dello spostamento forzato di 450 persone è passato senza un solo incontro con loro, senza minimamente pensare di poter trovare con loro le possibili soluzioni, senza avere i tempi necessari. Non sono mai stati chiamati e questo è accaduto anche a causa delle associazioni, in maniera corresponsabile. Il fatto di farsi sempre da mediatori nei loro confronti non sempre infatti porta a trovare le soluzioni migliori. Spesso ci sono quattro o cinque associazioni che competono in conflitto tra di loro e dicono cose diverse a queste persone che, loro malgrado, non solo non vengono prese in considerazione, si abbandonano fatalmente alle scelte degli altri.
Oltre alla gestione dei campi rom che in Italia ha prodotto anche azioni criminali, come ha svelato l’inchiesta Mafia Capitale, anche la progettazione all’interno della scuola rischia di fare un danno agli studenti di etnia rom. Lei cita dei documenti relativi ai Pof di due scuole reggine (Istituto comprensivo Radice – Alighieri e Istituto comprensivo B. Telesio), nei quali la difficoltà di scolarizzazione di alcuni bambini diventa un problema che sembra essere legato ineluttabilmente all’etnia.
Specifico intanto che nel caso dei rom rumeni di cui parlo principalmente nel libro, si tratta di bambini che nei loro Paesi di provenienza hanno tassi di scolarizzazione altissimi, da questo punto di vista, l’epoca di Ceaucescu ha portato a risultati positivi.
Ma nel caso dei pof delle scuole reggine si parla di bambini italiani
Si, esatto, di rom calabresi. In quei pof sembra si voglia far emergere l’incapacità quasi naturale di queste persone, come se non possano evolversi e strutturarsi nel corso del tempo. Rom, zingaro o nomade o come li chiamiamo, continuiamo ad associarli ad un’identità precisa che indica: non andare a scuola, delinquere, provocare disturbi, avere disturbi del comportamento, non riusciamo a mettere a tema qualcosa di completamente diverso. Che cosa accade nel caso dei rom autoctoni e nel caso dei rom rumeni? Molte associazioni anziché battersi per il diritto alla frequenza obbligatoria nelle ore scolastiche si concentrano sulle attività extrascolastiche e di doposcuola, che si possono anche fare ma prima di ogni cosa non si può abdicare da quello che è il diritto-dovere in capo a quei bambini, che è il rispetto della Costituzione. Non riusciamo a mettere a tema che usiamo anche una terminologia fortemente radicata in noi, ma che non ha un riscontri…
Si finisce insomma con il trattare situazioni diverse in modo uguale sotto lo stigma che viene attribuito all’origine etnica
L’ostinazione di continuare a dire nel caso di Reggio Calabria che ci sono bambini rom o nomadi è letteralmente sbagliato. Quei pof andrebbero bocciati già per questo. Quelli sono bambini italiani a tutti gli effetti, quindi perché trattarli in modo differente aggiungendo un aggettivo? Qualsiasi Ministero dovrebbe intervenire per spiegare che non ha senso aggettivarli in questo modo, che finisce di per sé per perpetuare uno stereotipo. Già di per sé c’è un rapporto differenziale.
Lei percepisce tra le buone pratiche per la costruzione di una società interculturale, l’interazione tra persone di etnia diversa e società maggioritaria, attraverso reti informali che si creano spontaneamente nei territori. Nel suo libro contrappone i sistemi differenzialisti con visione emergenziale ai sistemi universalisti con strumenti e pratiche ordinarie. Un esempio è quello del comune di Bisignano che sembrerebbe essere riuscito con mezzi ordinari a risolvere la potenziale conflittualità tra società maggioritaria ed etnie e nazionalità differenti.
Comincio con il dire che se ancora abbiamo la necessità di parlare di processi di inclusione, di progetti, se ancora abbiamo la necessità dopo decenni di parlare di ciò, vuol dire che qualcosa non ha funzionato. Dobbiamo includere chi? Persone che sono da decenni in Italia? Si sono già autoinclusi, nonostante il nostro essere razzisti, contrariamente al nostro sistema accoglienza. Io credo, per esempio, contrariamente al coro che afferma che la Calabria è una regione accogliente, che Riace e Badolato non possano essere riferimenti per i quali si possa sdoganare tutta la regione perché questi sono paesi dell’accoglienza. Questo è molto importante. Non è uguale mettere a confronto paesi che accolgono migranti che sono profughi e che comunque portano una dote economica.
 I flussi migratori riguardano anche i migranti economici. I paesi veramente accoglienti sono quelli in cui sono presenti i migranti economici che non hanno particolari protezioni ma che competono nel lavoro e attingono anche alle risorse ordinarie dei bilanci comunali. Sono questi i casi a cui guardare, quelli in cui è l’interazione che ha portato ad un processo di inclusione. L’interazione significa lasciare libere le persone da vincoli, potersi confrontare, trovare delle forme di coesistenza. 
In buona sostanza ciò che è successo a Bisignano è dovuto all’assenza concreta di associazioni fortemente strutturate. Questa forma di mediazione che non fa confrontare le persone tra di loro, crea processi di dipendenza. Nel momento in cui io mi approccio come associazione in maniera particolare, chiedo un riconoscimento particolare che non esiste se non in quanto cittadino e persona. l’approccio già di per sè non facilita l'inclusione. 
Molte volte a causa delle identità presunte, quindi nel focalizzarsi sui particolarismi come ho descritto nel mio libro, le forze dell’ordine addebitano ai rom rumeni erroneamente uno stato di apolide ed extracomunitario. Eppure ci troviamo davanti a rom rumeni che da dieci anni vivono a Cosenza, in teoria avrebbero tre cittadinanze: quella comunitaria, quella rumena e quella italiana. Il paradosso è che davanti a cittadini che hanno una tripla cittadinanza continuiamo a contrapporre la condizioni di extracomunitario.
E’ quindi alla società maggioritaria che andrebbero rivolte azioni per migliorare le condizioni di conflittualità che conducono al pregiudizio e alla segregazione?
La società maggioritaria è fortemente compromessa dai media, dalla politica che spingono verso la segregazione delle minoranze e dei migranti. Chi deve avere questo ruolo, chi deve fare questo grande salto sono le organizzazioni, le associazioni, per far capire alla società maggioritaria che non si tratta più di includere persone che già vivono tra di noi. Il problema è l’assenza di interazione, è necessario facilitare il rapporto con le persone. E’ necessario lasciare libere le persone di interfacciarsi, di dialogare anche con le istituzioni, perché di solito nessuno vuole parlare con i diretti interessati. Ciò che è necessario evitare è la creazione di forme di dipendenza che non favoriscono l’autonomia delle persone nella quotidianità.



Dalla copertina di "I Rom, la razza ultima"