Una
prigionia scandita dai ritmi di un’identità presunta, cucita
addosso a uomini e donne con origini e storie differenti ma
accomunati dall'appartenenza etnica. Una gabbia di stereotipi che condanna le
persone a percorsi di vita già decisi e definiti dai preconcetti
altrui, in nome dello stigma di zingaro.
Sotto
accusa nel libro “I Rom, la razza ultima - Prigionieri di
identità presunte” di Maurizio Alfano, le azioni messe in campo
negli anni dalle Istituzioni pubbliche ma anche dal privato sociale.
Azioni che, anziché impedire, hanno alimentano le pessime condizioni
di vita in cui ancora versano in Italia una parte degli appena
170-180 mila persone di etnia rom.
Dall’esperienza
tra i cittadini europei di nazionalità rumena di etnia rom a Cosenza
e nel comune di Bisignano, nascono la ricerca e le riflessioni
dell’autore, intervistato venerdì scorso, in occasione della
presentazione del libro a Reggio Calabria, presso la sede
dell’associazione Pagliacci ClanDestini.
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Un momento dell'incontro a Reggio Calabria
G.Marino (Opera nomadi Reggio Calabria), M. Alfano, G. Serranò, Santo Nocito (Pagliacci clandestini), Eugenio Naccarato (Amnesty International) |
Nel
suo libro analizza gli effetti che le identità presunte attribuite
all’etnia rom generano nelle politiche pubbliche ma anche
nell’azione di associazioni nate con l’intento di facilitare
l’inclusione dei rom. I campi sono un esempio significativo
dell’immagine stereotipata attribuita a queste popolazioni. Proprio
a Cosenza nei giorni scorsi si è assistito al trasferimento forzato
di centinaia di cittadini europei provenienti dalla Romania presso
una tendopoli, voluta dall’amministrazione guidata dal sindaco
Occhiuto, in alternativa al campo di Vaglio Lise.
Quali riflessioni le suscita questa scelta politica?
E’
un’azione sicuramente discriminatoria che si colloca all’interno
di una forma di razzismo istituzionale. E’ evidente anche nella
misura in cui viene scelta questa tempistica. In concreto accade che
oggi il campo è stato completamente demolito dalle ruspe e non
esiste più e con un atto notificato ad ogni famiglia si è
provveduto al trasferimento forzato presso una tendopoli, in un’area
a circa 700 metri distante dal vecchio campo. Quindi non è tanto il
luogo in sé che crea un nuovo stato di segregazione, condizione già
esistente con il campo sorto spontaneamente. L’atto è
discriminatorio se si considera dove oggi è ubicata la tendopoli e
cioè vicino ad un cavalcavia, esposto continuamente al traffico.
Queste persone in pratica sono state esposte pubblicamente al
rischio già sperimentato di subire durante la notte il lancio di
oggetti dal cavalcavia, la gente suona il clacson, chiama gli
abitanti della tendopoli con toni offensivi gridando “zingari”.
Sono stati esposti inoltre al complesso di abitazioni di via
Popilia, notoriamente contrario alla presenza di rom. Voglio
ricordare che un consigliere comunale eletto da quelle palazzine ha
minacciato di darsi fuoco, un consigliere comunale di minoranza, di
sinistra appartenente a Sel (Giovanni Cipparrone nda) che ha
minacciato di darsi fuoco. Attenzione, non perché delle persone
sono collocate forzatamente in delle tende ma perché le tende e i
rom sono stati avvicinati.
Queste
persone inoltre vengono trasferite nelle tende nei mesi di maggiore
caldo. Si arriverà ad uno sfinimento delle famiglie che lasceranno
le tende loro malgrado per trovarsi un’altra allocazione.
C’è
inoltre una situazione di promiscuità che genera problemi
all’interno delle tende. In una tenda ci sono infatti fino a tre
nuclei familiari diversi. E’ ovvio che, se le persone vengono
costrette in una situazione di cattività, può fatalmente emergere
il peggio, per il caldo, l’asfissia, la stanchezza, per aver dovuto
lasciare tutto, perché queste persone hanno potuto portarsi dietro
solo una coperta ed una busta con degli oggetti personali, del resto
non è rimasto nulla.
Una
situazione quindi addirittura peggiorativa rispetto al campo
Sicuramente.
Ma c’è anche un altro aspetto. Da adesso ufficialmente queste
persone per la prima volta vengono censite e inserite in un campo
anche se in maniera temporanea.
Cosa
si nasconde dietro questa operazione? Da questo momento si possono
contare 90 giorni, tre mesi, dopodiché le forze dell’ordine
possono chiedere conto a queste persone della loro presenza, chiedere
informazione sul come vivono, se hanno un contratto di lavoro, una
licenza da venditore ambulante. Dal novantesimo giorno sono
espellibili.
Non
dobbiamo dimenticare che, in questo caso, stiamo parlando di
cittadini europei che arrivano dalla Romania dove quasi sempre hanno
vissuto dentro delle vere e proprie case, hanno spesso anche titoli
di studio elevati.
E
ora si ritrovano in un campo…
Esattamente. Il
paradosso è che i rom rumeni che vivono a Cosenza sanno cosa è una
casa, sono qui come migranti economici, a volte per poter ritornare
in Romania e potersi costruire una casa. Loro non conoscevano prima
di venire in Italia l’esperienza dei campi. Arrivano in Italia e si
ritrovano a viverci perché nessuno fitta loro una casa e poi per
loro riusciamo ad inventarci istituzionalmente anche una tendopoli.
Quale poteva
essere una soluzione alternativa?
Anziché
creare una tendopoli, con le risorse pubbliche impiegate, si sarebbe potuto ad esempio dare una dote finanziaria ai nuclei familiari, dare
un primo bonus di ingresso per i nuclei familiari e sostenere
l’affitto di case, pagando cauzione e un paio di mesi. Il Comune
poteva farsi da garante e intermediare per trovare le case in
affitto necessarie, nel comune di Cosenza ma anche in quelli vicini.
Sarebbe stata una soluzione più semplice e avrebbe avviato processi
di relazione tra persone e anche la possibilità di richiedere la
residenza. Stiamo parlando di cittadini comunitari, cittadini rumeni
che vivono da 8-10 anni a Cosenza senza documenti e senza tessera
sanitaria, contrariamente a tutte le leggi.
Si
sarebbe potuto anche ascoltare le persone e trovare soluzioni con
loro…
Semplicemente
si. Bisogna pensare che un’operazione del genere come quello dello
spostamento forzato di 450 persone è passato senza un solo incontro
con loro, senza minimamente pensare di poter trovare con loro le
possibili soluzioni, senza avere i tempi necessari. Non sono mai
stati chiamati e questo è accaduto anche a causa delle
associazioni, in maniera corresponsabile. Il fatto di farsi sempre
da mediatori nei loro confronti non sempre infatti porta a trovare le
soluzioni migliori. Spesso ci sono quattro o
cinque associazioni che competono in conflitto tra di loro e dicono
cose diverse a queste persone che, loro malgrado, non solo non
vengono prese in considerazione, si abbandonano fatalmente alle
scelte degli altri.
Oltre
alla gestione dei campi rom che in Italia ha prodotto anche azioni
criminali, come ha svelato l’inchiesta Mafia Capitale, anche la
progettazione all’interno della scuola rischia di fare un danno
agli studenti di etnia rom. Lei cita dei documenti relativi ai Pof di
due scuole reggine (Istituto comprensivo Radice – Alighieri e
Istituto comprensivo B. Telesio), nei quali la difficoltà di
scolarizzazione di alcuni bambini diventa un problema che sembra
essere legato ineluttabilmente all’etnia.
Specifico
intanto che nel caso dei rom rumeni di cui parlo principalmente nel
libro, si tratta di bambini che nei loro Paesi di provenienza hanno
tassi di scolarizzazione altissimi, da questo punto di vista, l’epoca
di Ceaucescu ha portato a risultati positivi.
Ma
nel caso dei pof delle scuole reggine si parla di bambini italiani
Si,
esatto, di rom calabresi. In quei pof sembra si voglia far emergere
l’incapacità quasi naturale di queste persone, come se non possano
evolversi e strutturarsi nel corso del tempo. Rom, zingaro o nomade o
come li chiamiamo, continuiamo ad associarli ad un’identità
precisa che indica: non andare a scuola, delinquere, provocare
disturbi, avere disturbi del comportamento, non riusciamo a mettere a
tema qualcosa di completamente diverso. Che cosa accade nel caso dei
rom autoctoni e nel caso dei rom rumeni? Molte associazioni anziché
battersi per il diritto alla frequenza obbligatoria nelle ore
scolastiche si concentrano sulle attività extrascolastiche e di
doposcuola, che si possono anche fare ma prima di ogni cosa non si
può abdicare da quello che è il diritto-dovere in capo a quei
bambini, che è il rispetto della Costituzione. Non riusciamo a
mettere a tema che usiamo anche una terminologia fortemente radicata
in noi, ma che non ha un riscontri…
Si
finisce insomma con il trattare situazioni diverse in modo uguale
sotto lo stigma che viene attribuito all’origine etnica
L’ostinazione
di continuare a dire nel caso di Reggio Calabria che ci sono bambini
rom o nomadi è letteralmente sbagliato. Quei pof andrebbero bocciati già per questo. Quelli sono bambini italiani a tutti gli effetti,
quindi perché trattarli in modo differente aggiungendo un
aggettivo? Qualsiasi Ministero dovrebbe intervenire per spiegare che
non ha senso aggettivarli in questo modo, che finisce di per sé per
perpetuare uno stereotipo. Già di per sé c’è un rapporto
differenziale.
Lei
percepisce tra le buone pratiche per la costruzione di una società
interculturale, l’interazione tra persone di etnia diversa e
società maggioritaria, attraverso reti informali che si creano
spontaneamente nei territori. Nel suo libro contrappone i sistemi
differenzialisti con visione emergenziale ai sistemi universalisti
con strumenti e pratiche ordinarie. Un esempio è quello del comune di
Bisignano che sembrerebbe essere riuscito con mezzi ordinari a risolvere
la potenziale conflittualità tra società maggioritaria ed etnie e
nazionalità differenti.
Comincio
con il dire che se ancora abbiamo la necessità di parlare di
processi di inclusione, di progetti, se ancora abbiamo la necessità
dopo decenni di parlare di ciò, vuol dire che qualcosa non ha
funzionato. Dobbiamo includere chi? Persone che sono da decenni in
Italia? Si sono già autoinclusi, nonostante il nostro essere
razzisti, contrariamente al nostro sistema accoglienza. Io credo, per
esempio, contrariamente al coro che afferma che la Calabria è una
regione accogliente, che Riace e Badolato non possano essere riferimenti
per i quali si possa sdoganare tutta la regione perché questi sono
paesi dell’accoglienza. Questo è molto importante. Non è uguale
mettere a confronto paesi che accolgono migranti che sono profughi e
che comunque portano una dote economica.
I flussi migratori
riguardano anche i migranti economici. I paesi veramente accoglienti
sono quelli in cui sono presenti i migranti economici che non hanno
particolari protezioni ma che competono nel lavoro e attingono anche
alle risorse ordinarie dei bilanci comunali. Sono questi i casi a
cui guardare, quelli in cui è l’interazione che ha portato ad un
processo di inclusione. L’interazione significa lasciare libere le
persone da vincoli, potersi confrontare, trovare delle forme di
coesistenza.
In buona sostanza ciò che è successo a Bisignano è
dovuto all’assenza concreta di associazioni fortemente strutturate.
Questa forma di mediazione che non fa confrontare le persone tra
di loro, crea processi di dipendenza. Nel momento in cui io mi
approccio come associazione in maniera particolare, chiedo un
riconoscimento particolare che non esiste se non in quanto cittadino
e persona. l’approccio già di per sè non facilita l'inclusione.
Molte volte a
causa delle identità presunte, quindi nel focalizzarsi sui
particolarismi come ho descritto nel mio libro, le forze dell’ordine
addebitano ai rom rumeni erroneamente uno stato di apolide ed
extracomunitario. Eppure ci troviamo davanti a rom rumeni che da dieci anni vivono a Cosenza, in teoria avrebbero tre cittadinanze: quella comunitaria, quella rumena e quella italiana. Il paradosso è
che davanti a cittadini che hanno una tripla cittadinanza continuiamo
a contrapporre la condizioni di extracomunitario.
E’
quindi alla società maggioritaria che andrebbero rivolte azioni per
migliorare le condizioni di conflittualità che conducono al
pregiudizio e alla segregazione?
La
società maggioritaria è fortemente compromessa dai media, dalla
politica che spingono verso la segregazione delle minoranze e dei
migranti. Chi deve avere questo ruolo, chi deve fare questo grande
salto sono le organizzazioni, le associazioni, per far capire alla
società maggioritaria che non si tratta più di includere persone
che già vivono tra di noi. Il problema è l’assenza di
interazione, è necessario facilitare il rapporto con le persone. E’
necessario lasciare libere le persone di interfacciarsi, di dialogare
anche con le istituzioni, perché di solito nessuno vuole parlare
con i diretti interessati. Ciò che è necessario evitare è la
creazione di forme di dipendenza che non favoriscono l’autonomia
delle persone nella quotidianità.
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Dalla copertina di "I Rom, la razza ultima" |